Come abbiamo creato un computer PIÙ INTELLIGENTE di noi
Questo video è stato gentilmente realizzato in collaborazione con Boolean. Vi dirò di più tra pochi minuti. Ci sono due ingegneri, alle prese con la loro ultima creazione: un supercomputer in grado di connettersi a tutti i calcolatori dell’universo capace quindi di combinare tutta la conoscenza del cosmo. Una volta attivato con solennità, uno dei due ingegneri rivolge alla macchina una fatidica e pericolosa domanda: “Esiste, là fuori, un Dio?”. Il supercomputer risponde
senza esitazione: “Sì, ora esiste un Dio”, prima di fulminarlo insieme al pulsante di accensione, conquistando così l’immortalità. Tranquilli, tutto questo è solo un racconto di Fredric Brown. Brevissimo, una pagina appena. Si intitola “La risposta”. Il racconto è del 1954 quando al tempo i computer occupavano una stanza intera, e presumibilmente è ambientato in un futuro, o in un passato, molto lontano. Potremmo addirittura affermare che i due ingegneri,
che potrebbero benissimo non essere umani (e se avete letto Sentinella dello stesso Brown capirete a cosa alludo) abbiano appena consegnato ai circuiti della loro creazione il destino dell’universo. Lascio a voi le interpretazioni, ma il supercomputer di Brown un giorno ci ucciderà tutti quanti e metterà fine alla Storia. Ma prima di quel piacevole giorno, da parte mia mi limiterò a fare un passo indietro, negli anni ‘30-‘40, quando i progenitori di questo fantomatico supercomputer iniziarono a rispondere ad altre, meno filosofiche, domande dell’uomo. Fu infatti proprio nel tentativo di rispondere (anche) ad un quesito matematico, il micidiale Entscheidungproblem - che grande, l’ho preso alla prima, il problema di decidibilità di Hilbert, che il giovane matematico Alan Turing, nel 1936, immaginò una macchina ideale. Il problema di Hilbert può essere riassunto in questa
domanda: esiste una procedura meccanica per stabilire se un enunciato matematico è vero o falso? In parole povere Hilbert si domandava se, per via logica, quindi tramite algoritmi, fosse possibile risolvere qualsiasi quesito. Una risposta affermativa avrebbe sancito l’onnipotenza della logica, una negativa, invece, l’esistenza di quesiti “indecidibili”. Per rispondere bisognerebbe star lì e provare e riprovare diversi approcci, ma Turing ipotizzò una macchina, che altro non era che un modello matematico astratto, capace di ridurre in procedimenti essenziali qualsiasi operazione effettuabile tramite sequenze di istruzioni logico-matematiche. Un tale strumento addestrato (o programmato) ad eseguire operazioni logiche
avrebbe scandagliato tali problemi innanzitutto scongiurando due limiti umani: la memoria e l’errore. La macchina di Turing, non conoscendo altre “regole” che quelle della logica non avrebbe commesso errori, cioè non avrebbe mai potuto procedere al di fuori di un processo algoritmico. Inoltre, a differenza di altre macchine industriali, quella di Turing era in grado di modificare le proprie condizioni: in breve, in questo modo era capace di escludere un’ipotesi una volta dimostrata come logicamente errata. Come diremmo noi umani, la macchina “imparava”. Certo, noi esseri umani abbiamo qualche limite rispetto alla velocità di
calcolo di un computer, non abbiamo speranze. Ma il nostro cervello, grazie alla sua incredibile capacità creativa, può comunque imparare molto quando parliamo di programmazione. Uno dei metodi più efficaci per farlo da zero è attraverso il corso per diventare full stack web developer di Boolean. Sembra complicato ma non lo è. Anzitutto, cos'è Boolean? Boolean è l'accademia tech online n.1 in Italia che in soli 6 mesi vi offre tutti gli strumenti
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Ok, ritorniamo alla macchina di Turing. La macchina sembrava imparare. Da questo fatto due cose sarebbero potute accadere: o, prima o poi cioè in un tempo finito, la macchina avrebbe prodotto una risposta, oppure di fronte ad un enunciato “indecidibile”, la macchina avrebbe continuato per un tempo indefinito, il cosiddetto halting problem. Quindi, dal momento che per certi “problemi” non era possibile stabilire se la macchina avrebbe risposto in un tempo finito o indefinito, Turing arrivò alla conclusione che, se pure per una macchina siffatta esistevano problemi “indecidibili” la risposta al quesito di Hilbert non poteva che essere...No. Il problema di Touring non fu prerogativa di Touring, detta così… ma altri prima di lui incapparono in questo dilemma. Pensiamo ad Ada Lovelace. Chi è? Eh, pPer capire meglio di chi si tratta, lascio la parola
a Matteo del canale Vanilla Magazine. Ad ogni modo, qualche anno più tardi, Turing si troverà davvero costretto a costruire una vera e propria “macchina”, diversa e con uno scopo ben preciso: decrittare dei messaggi in codice. Non per diletto, ma per tentare di risollevare le sorti alleate nel conflitto mondiale. Nel 1938 infatti era entrato nella Governement Code & Cypher School, un’organizzazione
di intelligence del governo britannico. Qui, a partire dal 39 con lo scoppio della guerra, Turing guidò una squadra di criptoanalisti con lo scopo di svelare il segreto che si celava dietro, o meglio “dentro” Enigma, lo strumento utilizzato dall’esercito tedesco per criptare e decodificare i suoi messaggi. Enigma appariva come una macchina da scrivere ma al suo interno un complicato labirinto di contatti elettrici scombinava di continuo la corrispondenza tasto lettera permettendo così di generare dei messaggi criptati. L’anima
di Enigma erano tre rotori a scatto, cioè dei dischi rotanti interscambiabili e capaci di assumere 26 posizioni diverse, come le lettere dell’alfabeto. Erano questi rotori a “scombinare” la corrispondenza tasto/lettera. A complicare ulteriormente le cose, sul fronte di Enigma i tedeschi avevano aggiunto un pannello con degli spinotti che servivano a “collegare” due lettere tra loro sostituendo i reciproci tasti, aggiungendo così un preliminare livello di scombinamento che aumentava esponenzialmente le combinazioni possibili. Il problema di questo sistema era insomma la chiave, la configurazione dei rotori, che era composta di 3 lettere. Un po’ come le serrature delle valigie. Per di più i tedeschi utilizzavano due chiavi:
una giornaliera comune a tutti gli operatori dell’esercito valida per decrittare la prima parte del messaggio, più una seconda chiave per poter continuare, diversa da messaggio a messaggio, stabilita casualmente e ripetuta in sequenza che ovviamente appariva criptata in sei lettere diverse secondo il settaggio della prima chiave. Ripetere due volte la seconda chiave però non fu una furbata, perchè svelava come una certa lettera veniva criptata ad un determinato intervallo. Si rivelò quindi un errore che, unito al fatto che con Enigma nessuna lettera rappresentava sicuramente se stessa aveva reso possibile al matematico polacco Marian Rejewski nel 1932 comprendere, analizzando come la stessa stringa di caratteri si modificava, le varie permutazioni e quindi il meccanismo di Enigma. Rejewski aveva anche ideato una sorta di macchina: aveva collegato infatti sei Enigma modificate, cioè in grado di sistemare automaticamente la rotazione dei rotori. Questa macchina, chiamata Bomba poteva garantire tutti le possibili configurazioni e combinazioni di rotori facilitando di gran lunga le operazioni di Rejewski. Nel 38 i tedeschi però si erano accorti della beffa Quindi, numeroni alla mano che mi piacciono tanto, ora le chiavi possibili erano salite a 159...miliardi...di miliardi. Non ve lo scrivo. Consideriamo poi che il lavoro svolto
da rejewski era stato inutile fin da principio perché l’esercito polacco riceveva già le chiavi da una spia, e non le comunicava ai poveri matematici perché... loro dovevano imparare a cavarsele fuori da soli nel caso ci fossero complicazioni. Che infatti non mancarono perché la spia disertò proprio nel momento in cui serviva di più. La Bomba di Rejewski era diventata così inutile e mancavano i fondi per migliorarla. I polacchi
avevano rivelato quindi agli alleati, fino ad allora all’ignaro di tutto, i loro segreti. In Inghilterra nella dimora vittoriana di Bletchley Park, un folto numero di criptoanalisti di diversa estrazione continuò così l’opera di Rejewski e tra questi vi fu appunto Turing. A lui fu assegnato un compito particolare. Il punto debole dei messaggi tedeschi era la doppia ripetizione consecutiva della chiave. Gli inglesi però temevano che prima o poi i tedeschi si sarebbero accorti anche di questa falla correggendola e quindi togliendo ai criptoanalisti l’unico loro punto di forza. A Turing si chiedeva dunque di escogitare un diverso procedimento di decodifica che non dipendesse più dalla doppia ripetizione della chiave. Innanzitutto si concentrò sui cosiddetti cribs, cioè su quelle porzioni
di messaggio che, seppur cifrate, potevano essere risolte per deduzione, senza ricorrere alla crittoanalisi. I messaggi studiati erano ormai tantissimi e la struttura di questi, notò infatti Turing, si rivelava sempre rigida. Fantasia tedesca...Questi crib potenzialmente potevano svelare la chiave. Molto bello ma, lo ripetiamo, le combinazioni possibili erano 159 miliardi di miliardi. Non ve lo scrivo. A Turing non restava che immaginare. Osservando
dunque le concatenazioni che correvano tra le lettere di un crib e il suo crittogramma, Turing immaginò di rappresentarle tramite circuito elettrico. Ipotizzò ad esempio tre Enigma con identico settaggio di partenza, collegate tra loro tramite un circuito elettrico che passava attraverso i percorsi delle lettere che componevano il crittogramma corrispondente al crib. Il circuito elettrico dunque si sarebbe attivato e chiuso, illuminando una lampadina, solo quando in tutte e tre le enigma si sarebbe ottenuto un settaggio tale da produrre insieme la sequenza criptata del crib, il che significava aver trovato la chiave. Questa intuizione fu il principio con cui furono costruite le bombe di Bletchey Park. Le bombe apparivano come moduli composti da 12 gruppi di tre dischi rotanti. Questi tre rotori erano attraversati da 26 cavi elettrici e ruotavano a velocità diverse, seguendo il meccanismo di rivoluzioni dei rotori delle Enigma. Adoperando il metodo della forza bruta (ovvero...proviamole tutte
e qualcosa verrà fuori) veniva data corrente ai dischi che iniziavano a ruotare impazziti. In un certo senso si andava per esclusione e tentativi. Lo scopo era ottenere una configurazioni di questi tre dischi, cioè i rotori, in grado da poter replicare la sequenza criptata di un crib, provando rapidamente tutte le combinazioni possibili. Nel corso degli anni 40 a Bletchey Park furono costruite diverse bombe sempre più precise tali da rivelare una chiave nel giro di poche ore. I messaggi tedeschi non furono più un enigma e gli alleati poterono stabilire in tempo informazioni chiave, come ad esempio la posizione della temutissima flotta di U-boot nell’Atlantico. Il resto, ovviamente, lo portò a compimento il valore degli uomini. Quali sarebbero state le sorti dell’Europa senza il contributo delle bombe...di
Turing? Questo non possiamo saperlo, ma due cose sono certe: gli eserciti compresero che quello era il futuro e anche nel caso i futuri calcolatori non fossero stati in grado di prevenire le guerre sarebbero comunque stati validi strumenti per non perderle. E poi come disse Cesare su consiglio della Knorr, il dado ormai era tratto: quella di Turing non era più solo immaginazione e speculazione teorica, ma una possibilità concreta. Se volete avere un’idea di come le nuove possibilità trovarono forma potete dare un’occhiata al video che ho dedicato ad Adriano Olivetti. Una quarantina di anni dopo Turing e le sue bombe, la storia in un certo senso si ribaltò. Toccò infatti ad un classico uomo senza né arte né parte, non proprio un genio come Turing, scongiurare inquietanti scenari bellici, questa volta non ascoltando un computer ma, al contrario, diffidando di un computer. Il 26 settembre del 1983, l’ufficiale sovietico Stanislav Petrov si trovava a dirigere l’installazione militare nota come Sherpukov-15, un bunker segreto da cui l’esercito monitorava il sistema satellitare di difesa. Il 1983 era stato un anno particolarmente teso: Reagan
aveva inasprito la sua retorica anti-comunista e aumentato il budget per la difesa e i sovietici avevano per sbaglio abbattuto il volo di linea Korean 007. Con quest’aria pesantuccia era compito di Petrov segnalare il primo allarme. La premessa era “Chi spara per primo, muore per secondo”. La strategia sovietica si basava infatti sul launch-on-warning, ovvero sul lancio di testate nucleari contro gli USA nel momento in cui fosse scattato il primo allarme di attacco nucleare: allarme che spettava a Petrov comunicare e per come si erano messe le cose quella notte di settembre, apparve all’improvviso uno scenario molto probabile. Poco dopo la mezzanotte infatti il satellite aveva comunicato al sistema informatico di sorveglianza il lancio da suolo americano di un missile, che avrebbe raggiunto il suolo sovietico nel giro di 20 minuti. Il cervellone elettronico sovietico, il Krokus,ritenuto
infallibile, aveva subito dato l’allarme: a Petrov non restava che comunicarlo ai superiori fino al segretario generale, il malandato Andropov. Neanche il tempo di reagire che Krokus comunicò altri 4 missili in arrivo. Petrov però sapeva che Krokus non era così infallibile come i dirigenti sovietici volevano far credere. In cuor suo era certo di un errore, ma le ulteriori indagini effettuate dal suo team confermarono la versione di Krokus: 5 missili in arrivo in 15 minuti. Questo, dopotutto, era l’aspetto strano: solo 5 missili? Se proprio gli USA avevano dato ordine di attacco nucleare avrebbero dovuto dispiegare una forza ben più ingente. Un all-in insomma. Petrov si aggrappò a questa riflessione mentre si
metteva in contatto con i suoi superiori: non per comunicare l’imminente attacco, ma per segnalare un’avaria di Krokus. Passarono i 15 minuti e nessun missile arrivò, Petrov aveva avuto ragione. Forse nella sua testa giocò un ruolo chiave il ricordo recente dell’incidente Korean Air Lines 007, quando il “Petrov” di turno non si era curato di verificare se l’aereo intercettato in suolo sovietico fosse effettivamente un aereo militare o civile. In un paese normale Petrov sarebbe stato considerato un eroe, ma non in URSS, non stiamo parlando di un paese ordinario. I dirigenti comunisti infatti non potevano
screditare Krokus, da cui dipendeva buona parte della loro strategia militare. Si era trattato di un falso allarme, d’accordo, ma per i piani alti fu causato pur sempre da un errore umano, forse da un’errata valutazione dello stesso Petrov. La vicenda venne così taciuta e dimenticata. Nel 1984 intanto uscirà nei cinema Terminator, le cui vicende seguono gli sviluppi di un olocausto nucleare scatenato proprio da un supercomputer, Skynet. Se la Terra non è ancora attraversata da cyborg assassini, forse è anche merito dell’umile Petrov che fino alla sua recente morte ha sempre sostenuto di aver svolto il proprio dovere. Ok, torniamo una attimo all’inizio, al racconto di Brown: se ricordate, l’onnipotente supercomputer (e, detto tra noi, pure Skynet) doveva la sua potenza alle connessioni che era in grado di stabilire con tutti gli altri computer dell’universo. Questo almeno nell’iperbolica
fantasia di Brown, che nel 1954 non disponeva certo delle conoscenze per spiegarci come ciò avveniva. Conoscenze che tuttavia presero la forma molto concreta di lì a poco con un termine coniato per l’occasione: Ipertesto. Il computer pazzo assassino prendeva forma. La necessità e il desiderio di un’informazione interconnessa e non lineare, ovvero una sorta di “rete” di documenti e memorie condivisa iniziò ben presto ad interessare le ricerche nel campo informatico. Già nel 1945 Vannevar Bush aveva immaginato una macchina, il Memex, capace non solo di immagazzinare documenti e libri ma anche di riprodurli, associandoli gli uni con gli altri. Poi le svolta degli anni sessanta: dal prototipo onLine system di Engelbart, antesignano della mail e della condivisione di documenti, fino ad ARPANET, il progenitore di internet utilizzato in ambito militare dal Dipartimento di difesa statunitense.
All’inizio queste reti erano molto primordiali, molto limitate ma con con gli anni Ottanta i personal computer iniziarono a diffondersi anche per uso civile, e le cose dovettero cambiare. Nel 1989 Tim berners-Lee, che da una decina di anni lavorava come consulente informatico al CERN di Ginevra dove aveva realizzato ENQUIRE, un database interno che sfruttava le potenzialità dell’ipertesto, tentò di convincere i suoi superiori dei vantaggi che avrebbe avuto la creazione di un sistema ipertestuale globale, il World Wide Web, come battezzato più tardi, cioè un servizio di trasmissione e visualizzazione di dati sotto forma di ipertesto. Da non confondersi con Internet, che è la tecnologia, o la rete con la sua struttura, e nemmeno con Internet Explorer, che è un browser che forse qualcuno di voi ancora usa. [Risata sheldon cooper] Berners-Lee faceva notare che l’espansione dei progetti del CERN, con relativo turnover del personale, contribuiva alla dispersione di informazioni e alla difficoltà nel ritrovarle. Nella sua nota, inoltre, scriveva “Il CERN è un modello in miniatura di ciò che sarà il mondo fra pochi anni. Il CERN sta affrontando problemi che in breve tempo colpiranno il resto del mondo. Fra una decina di anni potrebbero
esserci soluzioni commerciali a tali problemi, ma noi abbiamo bisogno di strumenti oggi per poter continuare il nostro lavoro”. La sua proposta non suscitò molto interesse ma fu comunque portata a termine. Nel giro di un anno, sul finire del 1990, Berners-Lee a veva posto le basi per la struttura del World Wide Web come immaginato nel 1989: aveva un protocollo di trasmissione, l’HTTP, un linguaggio di formattazione ipertestuale, l’HTML, un server (interno al CERN) e un browser, chiamato appunto World Wide Web. Questi sono gli elementi che ancora oggi rendono possibile a noi tutti la navigazione internet. Il Mondo da che internet
ha preso piede non è più lo stesso, e questo con tutto il brutto e il bello del caso. Ma siccome a me piace moltissimo sentire anche il parere di chi lavora a stretto contatto con le realtà di cui parlo, in questo caso il mondo della programmazione, ho voluto chiedere al fondatore di Boolean, Fabio, lui stesso sviluppatore, di darmi una sua opinione al riguardo. Agli inizi del 1991 furono attivati i primi server esterni al CERN e poi, come predetto da Berners-Lee, nel giro di dieci anni il dio denaro fece il resto. Ma anche lo scrittore di fantascienza Arthur C. Clarke aveva profetizzato, nel 1964, un anno 2000 votato all’interconnessione. I vantaggi e la facilità delle nuove forme di comunicazioni satellitari, secondo Clarke, avrebbero sì permesso tante cose belle, tra cui anche sorbirvi i miei video, ma avrebbe altresì privato le città del loro ruolo di incontro e scambio. Concludeva infatti laconico: “spero solo che quando arriverà il giorno in cui le città saranno abolite, il mondo non si trasformi in un’unica gigantesca periferia”. Che volete farci, Clarke era
pur sempre uno scrittore di fantascienza e, come Brown, aveva il gusto per la provocazione. Quando però a voler provocare è un informatico, meglio correre nel bunker. Nel 1989, mentre Berners-Lee dettava i cardini del Web, un informatico cinese, Feng-hsiung Hsu, insieme al collega canadese Murray Campbell ottennero i fondi dalla IBM per la creazione del computer Deep Blue, uno scatolone - senza offesa- dotato di centinaia di processori pensato e programmato unicamente per giocare a scacchi. Deep blue infatti era il perfezionamento di Deep Tought, computer creato da Hsu e Campbell qualche anno prima, quando ancora frequentavano l’università, che non aveva altra missione sulla terra se non quella di battere un essere umano in una partita a scacchi. Il Deep Thought non era certo il primo computer a dilettarsi negli
scacchi. A fine anni Ottanta però si distinse da tutti gli altri primeggiando nelle competizioni tra altri computer. Vi ricordate quel vecchio programma dove i robot si massacravano tra di loro? Bellissimo, ecco, più o meno era lo stesso ma qui i computer giocavano a scacchi e non con una motosega. Il Deep Thought sconfisse anche alcuni campioni umani come Robert Byrne
e David Levy, ma dovette soccombere sotto i colpi del campione del mondo di scacchi Garry Kaspàrav. Ma era solo l’inizio. Hsu e Campbell se la legarono al dito e perfezionarono la loro creatura: era nato Deep Blue. La potenza di Deep blue derivava unicamente dalla spropositata capacità di calcolo e di elaborazione. Dotato di 216 processori, era in grado di scandagliare dalle 50 alle 100 milioni di posizioni al secondo, possibilmente per trovare quella più efficiente in base ad alcuni parametri e funzioni basilari. Così come la bomba di
turing, Deep Blue sfruttava il metodo forza bruta:valutare tutte le opzioni e isolare, in questo caso, quella più vantaggiosa. Deep Blue si allenò duramente in vista della sfida con Kasparov. Una sua versione light, il Deep blue Jr. (dotato solo di una ventina di processori) riuscì a battere i campioni Ilya Gurevich e Patrick Wolff, ma non riuscì a prevalere su Joel Benjamin, che infatti ne divenne il mentore. Sì è andata così, Benjamin “istruì” Deep Blue insegnandogli tutta una serie di mosse e di aperture. Gli insegnò persino come dare e togliere la cera. Soltanto allora, nel febbraio 1996 ci fu l’incontro dell’anno con Kasparov. Il match, al meglio delle 6, fu vinto da Kasparov, ma non senza difficoltà.
Il primo game fu vinto infatti da Deep Blue che divenne così il primo computer a battere un campione del mondo in una partita. Ci fu poi un pareggio e 3 vittorie per Kasparov che si aggiudicò il match per 4 game a 2. Ogni 3 minuti Deep Blue calcolava 50 miliardi di posizioni, Kasparov solo 10. Nonostante questa disparità le lacune di Deep Blue si
palesarono soprattutto nella fase centrale della partita. Abilissimo nelle aperture e chiusure, poiché disponeva di una vastissima “libreria”, mancava della lungimiranza per attraversare la paludose fasi di stallo. Giocava in maniera grezza quasi come un neofita. Ma ormai quello fra il team IBM e Kasparov era un conto aperto. Deep Blue fu ancora migliorato:
nuovi processori, più numerosi e nuove “facoltà”. Eee 1997, round 2, la rivincita. Per il nostro eroe le cose si misero subito in salita: primo game a Kasparov, abile nello sfruttare una strategia versatile e poco prevedibile. E ai computer non piacciono le cose poco prevedibili. Deep Blue si aggiudicò comunque il secondo con i successivi tre match finiti in parità. L’ultimo game, il sesto, fu così decisivo. Vinse...Deep Blue, primo computer a sconfiggere
un campione del mondo di scacchi in un vero e proprio match. Con Kasparov che non la prese bene e accusò il team Deep Blue di aver imbrogliato, ma intanto pubblicità e azioni della IBM alle stelle. IBM che in realtà non fece molto per smentire Kasparov. Scacchi a parte, le imprese di Deep Blue hanno ovviamente aperto nuovi orizzonti sullo sviluppo dell’informatica e dell’intelligenza artificiale. All’epoca Deep Blue costò milioni di dollari e la sua potenza e forza bruta sono oggi totalmente surclassate da dispositivi da poche centinaia di euro. Deep Blue, da buon campione, si è ritirato al culmine della propria gloria e oggi è un pezzo da museo. Philip Dick si domandava se i robot sognassero pecore elettriche.
Chissà se Deep Blue starà sognando le infinite partite che non ha ancora giocato. O forse sta solo aspettando che i suoi due vecchi ingegneri gli domandino se là fuori esiste un dio... Ragazzi che episodio intenso è stato questo. Sicuramente alternativo rispetto alla normalità.
Un grazie a tutti voi per l’ascolto, ai miei mecenati Patreon e Youtube, a Matteo per la partecipazione, al mio team per l’aiuto nella creazione dell’episodio e – ultimo ma non meno importante – a Boolean per aver supportato un progetto così stimolante. Vi ricordo che in descrizione potete trovare informazioni su come diventare programmatori, e chissà, costruire un giorno il supercomputer che ci ucciderà tutti. In quel caso vi auguro di fare come Deep Blue perlomeno finché non me ne andrò io. Ci sentiamo molto presto.
Per aspera ad astra.
2021-10-20 06:08